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|   2008: BIMILLENARIO
  DELL'ESILIO DI OVIDIO   | 
|   Quest'anno ricorre il bimillenario dell'esilio di
  Ovidio. Eco inferiore alle attese ha avuto in questo 2008 il bimillenario dell'esilio di Ovidio, fatta eccezione per qualche manifestazione tenutasi a Sulmona, città natale del poeta e qualche raro articolo su giornali e riviste.   In un pomeriggio del
  novembre dell'anno 8 dopo Cristo la gaia e mondana atmosfera nella quale
  Publio Ovidio Nasone trascorre la sua esistenza viene improvvisamente e per
  sempre interrotta dall'arrivo di un dispaccio di Ottaviano Augusto, che lo
  relegava, sembra senza specificarne le ragioni, in un remoto villaggio sul
  Ponto Eusino (odierno Mar Nero), dove esisteva un avamposto militare
  imperiale. In quel luogo,
  abitato, come Ovidio dovrà rendersi conto, non da popolazioni civili e con
  un'istruzione paragonabile a quella del cittadino romano medio, ma da tribù
  primitive e feroci, il poeta rimarrà per tutto il resto della sua vita e
  quindi per circa dieci anni, fino all'anno diciotto dopo Cristo, nel quale la
  sua vita ebbe fine, senza più rivedere la casa, la moglie Fabia, i circoli
  culturali che frequentava, gli ambienti di alto livello del patriziato
  romano, gli amici e l'interminabile e variegata schiera delle sue ammiratrici
  e dei suoi ammiratori, che lo acclamavano come il più grande poeta vivente. Perché ciò sia
  effettivamente accaduto, nonostante le innumerevoli ipotesi che si sono
  avanzate, rimane tutt'ora un mistero. Ancor più misterioso
  il fatto che, essendo succeduto ad Augusto, deceduto nel 14 dopo Cristo,
  Tiberio Claudio, costui non abbia revocato l'esilio. Quindi per ben
  quattro anni le suppliche che Ovidio inviava a Roma erano dirette a Tiberio e
  non più ad Augusto. Cionondimeno il
  fatto che pure costui rimase insensibile alle richieste di grazia può
  condurre a ritenere che le ragioni che avevano condotto Augusto a quel
  provvedimento non fossero relative ad un aspetto strettamente personale, ma
  che avessero una spiegazione più profonda. Tra le ipotesi di
  cui si è detto vorremmo proporre quella, a nostro avviso, più plausibile. Il grande carisma
  che Ovidio aveva presso i suoi contemporanei e che conservò anche nel medio
  evo (si veda come lo stesso Dante lo inserisca tra gli spiriti magni del
  Limbo della sua Commedia, insieme ad Omero, Orazio e Lucano, oltre
  naturalmente a Virgilio che lo accompagnava, “sì ch' io fui sesto tra cotanto
  senno”) [ > ved. Nota A ]
  lo portava ad
  influire in gran misura sui comportamenti e addirittura sul costume non solo
  della cerchia che egli frequentava ma dell'intera Roma. Nell'anno 8 d.C. il
  Poeta aveva 51 anni, essendo nato il 20 marzo del 43 avanti Cristo. Ancora giovinetto
  aveva letto in pubblico le sue prime poesie manifestando un talento
  straordinario. E che il mestiere di
  poeta dovesse essere ad ogni costo il suo se ne rese conto il padre, che, pur
  avendolo destinato, unitamente al fratello Lucio, all'attività di avvocato e
  perciò alla frequenza di due celebrate scuole di oratoria, come quella di
  Aurelio Fusco e quella di Marco Porcio Latrone, dovette scontrarsi con la
  determinazione del figlio, che già prevedeva per sé una fama illimitata nel
  tempo e nello spazio (“mortale est quod quaeris, mihi fama perennis
  quaeritur, in toto sempre ut orbe canar” - quello che chiedi è destinato a
  perire, a me si richiede una fama perenne, cosicché io sarò per sempre
  cantato in tutta l'orbe”). Neppure lo attirava
  la tradizione militare di famiglia (“non me more patruum dum strenua sustinet
  aetas praemia militia pulverulenta sequi”- neppure, secondo la tradizione
  degli avi, finché l'età e le energie me lo consentirebbero, desidero
  conseguire i premi della milizia polverosa). A me invece,
  aggiunge il Poeta, “ il flavo Apollo somministri calici di acqua Castalia”,
  che, come sappiamo, è la bevanda sacra alle Muse. Pur non essendo,
  come detto, del tutto certo quale sia stata la ragione dell'exilium (o meglio
  di quell'altra minore sanzione denominata relegatio, che consentiva di
  conservare i beni e la cittadinanza romana), è grandemente probabile che la
  sua stessa vena poetica che lo aveva avvicinato all'imperatore avesse
  costituito la sua rovina nelle cose di questo mondo. Infatti fin
  dall'esordio nella pubblicazione delle sue opere e cioè dai cinque volumi
  degli Amores [ > ved. Nota B ], “dati alle stampe” all'età di
  soli 24 anni, Ovidio era apparso estremamente versato nella poetica a sfondo
  amoroso e, nonostante la sublime genialità d'ispirazione e l'impareggiabile
  livello di perfezione tecnica, non poteva essere definito uno scrittore
  impegnato, sopratutto se per impegnato dobbiamo riferirci alla visione
  augustea di autocelebrazione e di ridefinizione dei costumi dell'epoca
  mediante un'attualizzazione di pretesi valori arcaici. L'anno della
  pubblicazione degli Amores era il 19 a.C., data sfortunata perché l'anno
  successivo, cioè il 18 a.C., Ottaviano, nel suo intento restauratore delle
  virtù avite, promulgò non solo la Lex
  Iulia de maritandis ordinibus, che avrebbe dovuto far fronte al crollo
  delle nascite, ma che in realtà, oltre a stabilire premi per i cittadini con
  famiglie numerose e pene pecuniarie per i celibi e i coniugi senza figli,
  grondava ipocrisia, poiché vietava alcune unioni non viste con favore, ma
  tuttavia all'epoca frequenti, come quelle tra i senatori, le liberte (schiave
  affrancate) e le attrici. Non solo, dicevamo,
  Augusto emanò quell'anno (il 18 avanti Cristo), la Legge “Iulia de maritandis
  ordinibus”, ma la ben più aggressiva “Lex Iulia de coerecendis adulteriis“,
  con la quale, tra l'altro, si vietava l'iscrizione dei figli illegittimi
  negli elenchi dello stato civile e si poneva un freno alla manomissione di
  schiavi. Con la stessa legge
  l'adulterio diveniva un reato che era sanzionato con la deportatio in
  insulam, cioè con la deportazione in un’isola. Alla luce di ciò
  l'imperatore non poteva che sopportare con qualche nervosismo il palese
  orientamento ovidiano per il libero amore, così contrastante con il proprio
  disegno di riportare Roma all'austerità dei costumi delle origini e con
  l'auspicata più arcigna e sospettosa “apartheid” tra classi sociali e il
  fatto per cui nonostante che anch'egli riservasse - com'era doveroso
  all'epoca e come pressoché tutti i poeti usassero fare - allo stesso
  Ottaviano Augusto, alla sua megalomania ed al suo narcisismo, qualche parte
  dei suoi versi, non ispirava tutta la sua opera alla grandezza di Roma e non
  la scolpiva nel bronzo, come ad esempio Virgilio, con entusiasmo, convinzione
  e dedizione. Ma Ovidio non era
  certo uno sprovveduto e non cercava la contrapposizione e tanto meno lo
  scontro con un despota che, per quanto considerato illuminato da molti
  storici e per quanto si atteggiasse talora in modo benevolo, non solo era
  celebre per le sue crisi di collera inarrestabili e da lui stesso
  incontrollabili, ma presentava rilevanti venature violente e sanguinarie, e
  così, probabilmente, avendo fiutato il pericolo, aveva concluso la sua opera
  più importante, “Le metamorfosi”, con la deificazione di Enea, con l'apoteosi
  di Romolo (libro XIV) ed infine con l'apoteosi di Cesare e con la
  glorificazione di Augusto (libro XV), individuando così ll collegamento e la
  simmetria tra il potere di quest'ultimo e le origini sacre della città
  eterna, attribuendo pertanto legittimazione all'impero e al suo divino
  rappresentante. Allo stesso modo con
  il quale si sono accreditate nel passato ancora recente le ultime monarchie
  con la dicitura “per grazia di Dio” in seguito ammorbidita, con l'avanzare
  delle istanze democratiche, in quell'altra “per grazia di Dio e per volontà
  della Nazione”. Peraltro dopo aver
  accomunato Augusto con Cesare, con Enea e, quello che più conta, con Romolo,
  il Poeta conclude il poema affermando la propria immortalità, intendendo così
  porre la sua poesia sopra qualunque cosa. Del resto negli
  Amores vent'anni prima Ovidio era stato chiaro: “cedant carminibus reges
  regumque triumphi”. Cioè: cedano alla poesia i re ed i loro trionfi. Nessuno, a mia
  memoria, aveva mai rivendicato prima e nessuno avrebbe mai rivendicato in seguito,
  con tanta enfasi, alla poesia il primato sul potere politico e su ogni altra
  attività umana, e perfino sull'oro (“cedat et auriferi ripa beata Tagi” –
  cioè: ceda alla poesia anche la felice riva del Tago aurifero).  Augusto quindi
  poteva sopportare, ma con malcelata e crescente irritazione, di essere
  circondato da personaggi femminili entusiasti della poetica di Ovidio e, se
  non ci sono prove che la terza moglie dell'imperatore e madre del suo
  successore Tiberio, Livia Drusilla, possa essere stata più che una fervente
  ammiratrice del poeta (vi era anche una notevole differenza di età, ma
  neppure eccessiva: quindici anni più di Ovidio), anche se qualche voce lo
  sussurrava, ciò significava che le sue norme tanto severe in materia di
  costume non erano condivise nemmeno all'interno della sua stessa famiglia. Sul punto
  l'imperatore era particolarmente sensibile perché la figlia Giulia, nata
  dalle sue prime nozze con Scribonia, non brillava per l'ossequio all'intento
  moralizzatore del padre, anzi, come dice Seneca, contava gli amanti a dozzine
  e di notte si dava alla pazza gioia per le vie della città. Secondo lo stesso
  filosofo, Giulia scelse come teatro dei suoi amplessi addirittura la tribuna
  dalla quale suo padre aveva promulgato le leggi contro l’adulterio. Ma Augusto avrebbe
  in seguito applicato alla lettera contro la figlia la sanzione prevista dalla
  legge da lui stesso formulata e cioè la deportazione in un’isola, che in
  questo caso sembra essere stata Pantelleria, dopo aver addirittura preso in
  considerazione la possibilità di farla uccidere da qualche sicario. Possiamo quindi
  immaginare cosa poté avvenire nella psiche di Ottaviano Augusto quando la
  nipote Giulia minore, anch'essa alquanto irrequieta e vivace, coniugata con
  un patrizio, Lucio Emilio Paolo, ebbe a prendersi una sbandata per Decimo
  Giunio Silano.  Non solo anche
  Giulia minore aveva letto con trasporto l'ars amandi di Ovidio, ma aveva
  deciso di passare dalla teoria ai fatti. Non solo: ma Ovidio,
  oltre ad aver avuto (così dovette apparire ad Ottaviano) una responsabilità
  morale nell'avere con i suoi consigli di seduzione, rivolti anche alle donne
  nell'ultimo capitolo della sua ars amandi aggiunto ad hoc, e più in generale
  con le sue opere, suscitato aspirazioni tanto emancipate ed anticonvenzionali
  nelle romane e dovunque i suoi libri avessero trovato diffusione, avrebbe
  partecipato in qualche modo alla vicenda sentimentale tra Giulia minore e
  Decimo Silano, fornendo a costoro il necessario appoggio logistico e di
  copertura, cosicché egli sarebbe stato al corrente di alcuni se non di tutti
  gli aspetti della relazione. Ce n'era a
  sufficienza agli occhi di Augusto per deportare Giulia minore, come già
  avvenuto per la madre, con l'unica differenza che la destinazione fu quella
  delle isole Tremiti. E questa era anche
  l'occasione per liberare Roma, i romani e sopratutto le romane dalla presenza
  di Ovidio, che dovette in pochissime ore fare le valigie e partire la notte
  stessa alla volta di Tomi, non prima di aver, in preda all'ira contro la sua
  stessa arte, che era divenuta causa della sua rovina, dato alle fiamme un
  gran numero di recenti poesie inedite. Esistono come si è
  detto altre teorie, ma quella sopra illustrata appare la più verosimile,
  anche alla luce di quanto segue: 1.   
  l'esilio
  di Giulia minore e di Ovidio avvenne per entrambi nell'anno 8 dopo Cristo; 2.   
  lo
  stesso Ovidio dall'esilio si riferì, senza aggiungere ulteriori particolari,
  circa le cause del suo allontanamento da Roma, ad un carmen (che può essere
  individuato nell'ars amandi) e ad un error (che può essere individuato
  nell'aiuto dato a Giulia ed a Silano); 3.   
  è
  documentata l'amicizia di Decimo Giunio Silano (da non confondersi con
  l'omonimo vissuto ai tempi di Cicerone e console nel 62 a.C.) con Augusto,
  amicizia che gli permise di evitare le sanzioni più gravi. Inoltre non era la
  prima volta che un grande lirico elegiaco era vittima di Augusto. Infatti
  Gaio Cornelio Gallo (69 -25 a.C.), della cui opera non rimane pressoché
  nulla, appartenente al ceto equestre, come Ovidio e da Ovidio celebrato come
  un poeta immortale (“Gallus et esperiis et Gallus notus eois et sua cum Gallo
  semper nota Lycoris erit” - Il nome di Gallo sarà sempre noto ad occidente
  come ad oriente e con lui sempre sarà famosa la sua Licoride”), si era posto
  in contrasto con Augusto e con il ceto senatoriale. Caduto in disgrazia,
  colpito da un provvedimento di rinunzia all'amicizia da parte del principe,
  accusato ingiustamente dal senato di una congiura, fu condannato all'esilio e
  alla confisca dei beni e si suicidò, come pare, nel 26 a.C..  Anche se si sostiene
  che il contrasto si verificò a causa del ruolo di prefetto in Egitto che era
  stato affidato al Poeta, non può escludersi che l'avversione del futuro
  imperatore fosse riconducibile al fatto che anche Gallo non poteva apparire
  in sintonia né con la legge de maritandis ordinibus di cui si è detto sopra
  (legge che Augusto avrebbe promulgato qualche anno dopo), né con la paranoia
  moralistica che ha caratterizzato l'esistenza del pronipote di Cesare,
  perché, innamoratosi di un'attrice e danzatrice di mimo, schiava liberata e
  talmente dotata di fascino da essere stata amante nientemeno che di Marco
  Antonio, ebbe a cantarla in un'opera, che, come quella di Ovidio, era
  intitolata Amores.   Note Nota A) Canto IV Inferno versi 64 e seguenti. Nota B) Ci è pervenuta solo l'ultima edizione ridotta a tre, a seguito della distruzione col fuoco, operata dallo stesso autore, di due libri di elegie.   Cristiano Viale       | 
 
 
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