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Il vegetarianesimo come base dell'etica pitagorica e della vita giusta Intervento
per l’Associazione Cattolici Vegetariani Ozzano Emilia (BO), 2 Aprile 2011 Relatore/Autore: Salvatore Mongiardo Care
amiche a cari amici, se guardiamo ai principi che ispiravano la condotta
di vita di Pitagora e dei pitagorici, vediamo che, rispetto al mondo di oggi,
essi sono in tutto e per tutto l’opposto. In altre parole, il mondo attuale e
i suoi valori sono esattamente descritti da un solo aggettivo: antipitagorici. Si potrebbe anche
aggiungere che tutti i nostri mali erano stati previsti da Pitagora. Anzi
possiamo addirittura immaginare Pitagora che guarda al nostro mondo che va
male, e con un sorriso di superiorità commentare: come volevasi dimostrare! Vediamo allora brevemente quali erano i principi
seguiti da Pitagora e dai suoi. Sono sette i capisaldi dell’etica pitagorica.
Il numero di sette è una mia elaborazione, che però rispecchia la
predilezione di Pitagora per questo numero che ricordava il giorno di nascita
di Apollo, di cui Pitagora si riteneva figlio. Questi capisaldi sono: 1.
i beni devono essere
in comune 2.
la vittoria sporca
l’uomo 3.
rifuggire dal successo
e dalla gloria 4.
astinenza dal sesso 5.
vita sobria di
comunità in posti solitari 6.
amicizia universale 7.
vegetarianesimo 1. La comunione dei beni, praticata anche
dai primi cristiani ma presto dimenticata, era la conditio sine qua non per far parte della cerchia dei pitagorici,
i quali dovevano mettere tutti i loro beni a disposizione della comunità,
salvo poi riprenderli in caso di abbandono. Tanto per fare un esempio
puramente teorico, se applicassimo la regola pitagorica al debito pubblico
italiano, questo verrebbe automaticamente azzerato dai risparmi degli
italiani che all’incirca ammontano alla cifra del debito. 2. La vittoria che sporca il vincitore è dottrina
originale del pitagorismo, che riteneva un male la separazione del vincitore
dai vinti, in quanto il vincitore diventava soggetto d’invidia. La vittoria
aveva dunque un suo carico perverso, era indegna di una persona per bene. I
pitagorici potevano gareggiare per gioco, ma senza vincitori, tanto che era
proibito loro perfino assistere ai giochi olimpici dove si coronavano i
vincitori. In questo senso ristretto sarebbe da interpretare l’espressione
che ai giochi è importante partecipare, non vincere. 3. Il rifiuto del successo e della gloria
si giustificava perché il pitagorico doveva impiegare le sue migliori energie
in una conquista delle cose nobili e belle, come la conoscenza del
firmamento, l’unione a Dio, lo studio, l’apprendimento delle dottrine arcane
e delle scienze. La ricerca del successo e della gloria invece erano
fuorvianti perché distoglievano da quegli obiettivi considerati il vero scopo
della vita. Oggi prevalgono in tutto il pianeta le culture anglosassoni per
le quali vincere, essere il primo, avere successo, è tutto e anche di più. 4. L’astinenza dal sesso, salvo la
procreazione, era molto rigida presso i pitagorici e come tale passerà nel
cristianesimo. Per Pitagora il sesso era un piacere ammaliatore e omicida,
come il canto delle Sirene, che induceva a distrazioni e tradimenti,
alimentando fantasie morbose che divoravano la mente e l’anima
dell’individuo. E’ rimasta celebre l’espressione ironica di Pitagora quando
qualcuno dei suoi allievi gli chiedeva il permesso di lasciare la scuola per
unirsi a una donna: Uno si accoppia
quando vuole essere più debole di se stesso. Le visite ai siti porno fatte giornalmente tramite
internet vengono attualmente calcolate in centinaia di milioni in tutto il
mondo: ricordano il canto ammaliatore e omicida delle Sirene, perché divora
le migliori energie dell’individuo. 5. La vita dei pitagorici doveva svolgersi
lontana dalle grandi città per non essere distratti e turbati dalla vita
reale. Era soprattutto bandita la mollezza dei costumi e il lusso: la vita
doveva svolgersi sobriamente e con grande forza d’animo. Una prova di
carattere per i pitagorici consisteva nel preparare un lauto banchetto e poi
andare via senza assaggiare nulla! La vita in comune delle comunità
pitagoriche era una invenzione che non aveva precedenti nel mondo
occidentale. La vita comunitaria eliminava alla radice quello che oggi è il
maggiore dei mali: la solitudine dell’individuo, abbandonato dalla famiglia
soprattutto nella parte finale della vita. Qualcosa di inconcepibile per i
pitagorici, i quali accorrevano dai loro sodali ammalati e li assistevano
curandoli fino alla morte. 6. L’amicizia universale, la filìa, è riportata nel capitolo 33
della Vita Pitagorica di Giamblico, e vale la pena citarla per esteso: …la filìa
era l’amicizia degli dèi verso gli uomini tramite la pietà e il culto.
Amicizia dell’anima per il corpo e della ragione per le facoltà irrazionali
grazie alla filosofia e alla sua contemplazione speculativa. Amicizia degli
uomini l’uno per l’altro: fra i cittadini tramite la retta osservanza delle
leggi; fra gli stranieri, tramite l’esatta scienza della natura umana;
dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli e i parenti in virtù di un
incorruttibile sentimento di comunanza. Amicizia
insomma di tutti per tutti, persino verso gli animali. Amicizia del corpo
mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze
latenti in esso tramite la buona salute, il regime di vita adatto e alla
temperanza. Una sola e sempre la medesima parola, filìa, questo amore reciproco, che fa
in modo che tutti i galantuomini del mondo siano amici anche prima di
conoscersi. Oggi siamo lontani anni luce da quell’insegnamento con tutte le
forme di razzismo, chiusura culturale a migranti, terzo e quarto mondo. 7. La proibizione di nutrirsi di animali,
sia carne che pesci, era giustificata da Pitagora perché l’animale aveva in
comune con l’uomo lo stesso spirito di vita: l’uomo era
fratello maggiore dell’animale al quale egli doveva rispetto e aiuto. Pitagora
sosteneva che mai si sarebbe potuto uccidere un uomo se non si uccideva
l’animale. Quindi, il cibarsi di carni era la porta dalla quale entrava la
violenza nell’uomo, e la vera origine di tutte le guerre. Per questo
l’offerta pitagorica agli dèi consisteva in focacce di farina e miele, spesso
a forma di animale, come nel caso del bue di pane che Pitagora offrì quando
scoprì il suo famoso teorema. Egli suscitò meraviglia a Delo, quando offrì
focacce ad Apollo Genitore che non accettava sacrifici cruenti. I pitagorici,
che in bianche vesti di lino facevano le loro offerte di pane, sfidavano i
templi di Grecia e Magna Grecia bagnati dal sangue delle vittime. Allarghiamo adesso il discorso sul vegetarianesimo
di Pitagora il quale chiaramente ammonisce che l’uscita dalla violenza è
possibile solo se si guarda alla vita e ai suoi problemi con audacia e
benevolenza. Pitagora difatti iniziò la sua straordinaria avventura umana
prendendo le difese di un cane bastonato. Il
filosofo non solo rifiutava di cibarsi sia di carne che di pesce, ma stava
lontano da cacciatori e macellai. L’uccisione, e poi il consumo di creature,
come ribadisce il pitagorico Empedocle, aveva due effetti nefasti per l’uomo:
provocava una brama incontrollata di sesso e, inoltre, faceva nascere una
cultura violenta che alla fine restituiva all’uomo la violenza perpetrata
contro l’animale. Questo concetto lo
ritroviamo in Giordano Bruno, il quale scriveva testualmente: Ben fece Caino a uccide quel massacratore di animali Abele… Bruno voleva indicare, nel
suo linguaggio colorito, che la violenza data agli animali fatalmente si
ritorce contro l’uomo per una legge di reazione uguale e contraria. Riprendiamo adesso il
discorso su pecore e agnelli ricordando il rispetto dimostrato da Pitagora
per questi animali. Pitagora e i suoi si rifiutavano addirittura di indossare
abiti di lana perché era il vestito dell’animale che non poteva essere
tosato. Lino non lana, era il loro vestire, e la loro vestizione
anche da morti. E il lino era prediletto perché a ogni lavaggio diventava
sempre più candido, simbolo di purezza. Questo rispetto estremo per l’agnello
ci richiama la figura di Cristo Buon Pastore, che non vende e non uccide le
sue pecore, ed è in forte contrasto con l’offerta mattutina e vespertina nel
Tempio di Gerusalemme, dove si offriva l’olocausto di un agnello. Oggi è universalmente accettato che Gesù era in
qualche misura ammiratore o conoscitore o seguace degli Esseni, la setta
religiosa di Ebrei che lasciarono i loro scritti nei Rotoli di Qumran. Lo stesso Papa Benedetto XVI, durante la
celebrazione del Giovedì Santo 5 aprile 2007, ha affermato che Gesù potrebbe
aver celebrato la Pasqua ebraica, la sua Ultima Cena, nel giorno in cui la
fissava il calendario degli Esseni, che erano vegetariani. Il papa ha detto
testualmente: …Gesù ha celebrato la Pasqua
con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran… e l’ha
celebrata senza agnello… C’è però da chiedersi a chi s’ispiravano gli
Esseni nella loro pratica rigorosamente vegetariana e nella contestazione del
Tempio di Gerusalemme e di ogni sacrificio cruento. Una fonte, che nessuno
può mettere in dubbio, è il grande storico Giuseppe Flavio, colto ebreo di
nobile famiglia, che partecipò come generale alla guerra contro i Romani e
predisse a Vespasiano che sarebbe diventato imperatore. Nelle Antichità
Giudaiche (XV, 371) egli scrive testualmente degli Esseni: Si tratta di un gruppo che
segue un genere di vita che ai Greci fu insegnato da Pitagora. Il dato decisivo però non è tanto la testimonianza degli storici,
quanto il fatto che gli Esseni e i pitagorici facevano le stesse cose: ·
vita di comunità ·
cena rituale ·
beni in comune ·
osservano la castità ·
dottrine segrete ·
vestiti di lino bianco ·
preghiere al sorgere
del sole ·
bandiscono l’olio ·
proibiscono il
giuramento ·
sono vegetariani ·
aborriscono il
sacrificio ·
bagno rituale Senza voler andare nei dettagli, ci limitiamo a
questi dodici punti che balzano agli occhi. Ora, se incrociamo queste
informazioni, arriviamo a quanto scriveva monsignor Canciani su Gesù come
esseno e vegetariano che cacciava gli animali dal Tempio per salvarli, e che
celebrava l’Ultima Cena senza agnello. Personalmente sono convinto che è necessario
guardare a Gesù attraverso la cultura pitagorica, che nel mondo antico ebbe
una diffusione oggi largamente sottovalutata. Basti pensare che la dottrina
dei Sufi altro non è che la
diramazione pitagorica nel mondo islamico, come quella essena lo fu nel mondo
ebraico. Nel libro che sto scrivendo, dal titolo Cristo è arrivato a Crotone, i punti
di contatto tra Pitagora e Gesù portano a una visione di Gesù come grande
filosofo, una analisi che finora non è stata compiuta. Basti solo pensare che
Gesù fu l’unico ad andare oltre Pitagora e la sua metempsicosi, la
trasmigrazione delle anime. Gesù andò anche oltre la dottrina, codificata poi
da Plotino, con l’eterno ripetersi del ciclo cosmico, tanto simile alle
reincarnazioni del mondo orientale. Quelle concezioni, ripetitive e cariche
di angoscia, vengono superate brillantemente da Gesù con la creazione del tempo
lineare, dal vivente che raggiunge Gesù risorto per l’eternità senza
ripiombare più nel ciclo. E’ un argomento complesso che non può essere
affrontato ora, ma si sintetizza dicendo che la dottrina di Cristo,
rivisitata in chiave pitagorica, acquista enormemente in coerenza e
razionalità. L’Apocalisse termina con l’adorazione dell’Agnello,
che rimane vivo sul trono di Dio, nella Gerusalemme Celeste dove non c’è
più spargimento di sangue. Le ultime parole dell’Apocalisse sono
un’invocazione accorata quanto inaspettata: Vieni, Signore Gesù! Abbiamo
diritto a chiederci: perché Gesù deve tornare una seconda volta? Io penso che
Gesù stia ritornando nello splendore della sua veste di lino per ristabilire
la grande coerenza con la quale ha vissuto. Non si può difatti parlare di
fine dei sacrifici cruenti, e poi lasciare che si macellino milioni di
vittime ogni giorno. Gesù torna per fare sulla Terra una sola famiglia per
tutti i viventi, e questo avverrà attraverso la giustizia animale. Mi rendo conto che questo può apparire una utopia.
Ma voglio darvi due segni che ho captato durante le ricerche per la stesura
del mio libro. Due segni conservati nella chiesa, ma dei quali abbiamo perso
la memoria. Tutti e due i segni provengono dalla Magna Grecia, la terra di
Pitagora. Il primo è la prescrizione delle tovaglie di lino bianco su tutti
gli altari, prima ricoperti da tovaglie colorate. Questo fu disposto da papa
Eusebio che regnò pochi mesi nell’anno 300 dopo Cristo. Papa Eusebio, chiamato
magnogreco, proveniva da Casignana
in Calabria, e per quella riforma si ispirò direttamente alla tradizione
pitagorica. Il secondo segno è l’elevazione dell’ostia nella
messa. Fino alla riforma conciliare della liturgia, il sacerdote celebrava
con le spalle rivolte al popolo. Era difatti una prescrizione pitagorica non
voltare mai le spalle al sole, al Dio, ed è anche la ragione per cui gli
altari erano posizionati sempre a oriente. L’ostia, rotonda e bianca di luce
come il sole nascente, provenivano dalla tradizione pitagorica del Sud
Italia, e da lì passarono a Roma. Duc in altum, duc in
altum!
Alzala, alzala, gridavano al sacerdote
i primi cristiani che volevano vederla alzarsi come il sole. Questi due segni
ci indicano che siamo alle porte di una più profonda comprensione della
storia per la costruzione del regno di pace fra tutti i viventi. 2
aprile 2011 Salvatore Mongiardo |
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«Il vegetarianesimo come base
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Intervento per l’Associazione Cattolici Vegetariani, Ozzano Emilia
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