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«Psicoanalisi e morte nucleare»

 

|||   Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet   |||

 

a cura di VITTORIO AMODEO e MARINA PALMIERI

 

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eMALVAGIAf

Trimestrale della cultura sommersa

 

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PARTE PRIMA dellfINTERVISTA:

 

su  >  eMALVAGIAf Trimestrale della cultura sommersa, Numero 26, Anno VII, Novembre 1987, pp.3-6.   ¡

 

 

PARTE SECONDA dellfINTERVISTA:

 

su  >  eMALVAGIAf Trimestrale della cultura sommersa, Numero 27-28, Anno VIII-Marzo 1988, pp.6-8.   ¡

 

 

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Psicoanalisi e morte nucleare

Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet

 

(nota in calce: Prof. G. Pietropolli Charmet, psicoanalista, docente di psicologia dinamica presso l'Università Statale di Milano)

 

a cura di VITTORIO AMODEO

e MARINA PALMIERI

 

 

PARTE PRIMA su MALVAGIA N.26  ¥

 

 

 

 

Malvagia: È  noto che negli arsenali mondiali sonno immagazzinate bombe nucleari in quantità tale da distruggere molte volte ogni traccia di vita sulla Terra. Inoltre è tale la sofisticazione delle armi e dei sensori che, a prescindere dalla volontà umana, la catastrofe potrebbe verificarsi per un errore. Di fronte a questa situazione, nuova nella storia dellfumanità, la psicoanalisi ha qualcosa da dire?

 

 

Charmet: Penso che possiamo fare solo delle perlustrazioni perché, a parte il gruppo di Fornari (il gruppo che si è creato nella Società Internazionale di Psicoanalisi, e che si è interessato della guerra; cfè stato anche nellfultimo convegno internazionale un settore dedicato al problema della guerra) a parte questo gruppo non è molto vasta né la ricerca psicoanalitica né lfinteresse propriamente clinico. Dfaltra parte queste perlustrazioni sul macrosociale sono più di natura sociologica, antropologica che non specificamente psicoanalitica, anche se poi molti psicoanalisti si confrontano su questi scenari della mente collettiva. Quello che sembra difficile realizzare a livello di presa collettiva è lfimmanenza di un lutto cosmico.

Per i movimenti pacifisti sarebbe legittimo aspettarsi una mobilitazione di carattere molto più generale di quanto non avvenga. Come mai è così difficile elaborare in modo preventivo questo lutto nella coscienza individuale, e quindi poi nella coscienza del collettivo, e confrontarsi con la prospettiva della morte della specie, in sostanza con la morte nostra attraverso la morte dei nostri figli e della nostra prosecuzione sul pianeta? Si tratterebbe effettivamente di farsi carico a livello politico, a livello collettivo di una qualche forma di elaborazione preventiva del lutto che innescasse quei movimenti riparatori, quei riti funerari che sul versante progressivo realizzano effettivamente forme di sopravvivenza.

Ma prendiamo certe forme di comunicazione di massa che avrebbero lfintenzione di indurre a pensare ed elaborare preventivamente il lutto, cioè prendere delle misure riparative atte a evitare la morte dei figli: per esempio il film «The day after». A me sembra che il film tradisca una forma maniacale di elaborazione del lutto, perché gran parte degli spettatori sono indotti attraverso questa fantasiosa ricostruzione del «giorno dopo» ad essere piuttosto curiosi e forse con lfacquolina in bocca di poter partecipare a un nuovo western, a una nuova epopea. Sono operazioni culturali che in qualche modo tradiscono la sostanziale incapacità di riparare e di elaborare preventivamente il lutto, somministrando sotto forma di film western una nuova epopea della specie che ricomincia da capo e che può anche essere stimolante per il bambino interno nostro, che dice: va bene, tutti morti, però naturalmente io sarò uno dei pochi sopravvissuti. Il messaggio del film in fondo non è così angoscioso come a livello manifesto può sembrare: tutti morti, distrutti, se non muoiono subito muoiono dopo devastati da malattie, però lferoe se la cava e la tendenza, da che mondo è mondo, è di identificarsi con i sopravvissuti e non con quelli che ci rimettono la pelle. Allora, uno dei problemi mi sembra questo: cosfè che impedisce di elaborare preventivamente il lutto?

Qui forse per analogia si può pensare a quello che è successo in altri ambiti dove invece il lutto, la devastazione, la possibile morte delle cose ha suscitato nel collettivo un movimento riparatore. Quando sono arrivato a Milano venticinque anni fa cfera lo smog, il cielo era giallo, non si poteva stendere la biancheria, quando si usciva la macchina era nera, non si respirava. Adesso si respirac cioè sono state prese delle contromisure di fronte alla verifica da parte di tutti degli effetti di un attacco avido e pieno di cupidigia alla natura. Lo sviluppo tecnologico, le macchine, i riscaldamenti provocavano un attacco grave alla madre terra e di fronte ai primi segni del fatto di aver rovinato la terra, di averla devastata e inquinata, si sono attivati in qualche modo a livello di piccoli gruppi e poi via via a livello collettivo quei movimenti riparativi che poi a livello politico, a livello legislativo hanno comportato contromisure, come i depuratori: tutte elaborazioni in qualche modo preventive del lutto eventuale di rimanere senza natura. Si è cominciato a prendere qualche misura rispetto allfolocausto della natura, ma questo perché in qualche modo è stata offerta la possibilità di elaborare dei sintomi di tutto questo: è partito un movimento che ha cominciato a immaginarsi come responsabili del matricidio. Come figli della terra di averle prima rubato tutto dai visceri (petrolio, materie prime ecc.) e quindi di aver sporcato dappertutto come i bambini incontinenti; di averla fatta invecchiare e avvizzire anzitempo.

Così nella relazione figli-genitori, anche in una situazione di turbolenza in fase contestativa adolescenziale, una malattia del genitore può innescare un movimento riparativo dellfautorevolezza e quindi un nuovo trend, in cui anche il vandalo precedente in qualche modo si trasforma in un personaggio. Ma cfè bisogno di qualche indizio della propria colpevolezza. È solo questo che in qualche modo consente di innescare dei movimenti riparativi, nei quali si dice: va bene, allora aggiusto, allora voglio regalargli la vita, allora lo sostengo, in qualche modo lo rimetto a nuovo, pulisco la relazione, ritiro lfaggressività, lfinvidia e tutti i vandalismi irrazionali. Chernobyl e altri avvenimenti recenti mi sembra che abbiano consentito un movimento che poi si è espresso anche a livello politico, perlomeno alcuni partiti hanno riveduto le possibili conseguenze nefaste delle proprie scelte. È successo un grave disastro, ma rispetto allfolocausto nucleare è stato acqua di rose; eppure vfè stata una presa di coscienza che si è espressa poi a livello politico; analogamente a quanto succede, mi sembra, nello sviluppo dellfindividuo che si confronta col problema della morte, col problema della malattia, tutti fenomeni che comportano comunque lfelaborazione delle proprie colpe.

 

Malvagia: Dunque la prevenzione dellfolocausto nucleare dovrebbe essere ricavata da unfoperazione mentale, in quanto lfolocausto non può essere dimostrato da fatti parziali premonitori (almeno ci auguriamo che non lo sia). Lfoperazione deve essere fatta naturalmente, e a livello di popolazione, di massa, cfè forse una certa impreparazione.

 

Charmet: Cfè appunto un cemento duro, in quanto il rito funerario e lfelaborazione di una nuova religione che ci metta al riparo dallfeventualità di morire tutti quanti davvero può decollare soltanto se cfè la possibilità di rappresentarsi a livello individuale e a livello collettivo la vicenda. Ora, contro il rappresentarsi in modo ragionevole degli scenari possibili (che non abbiano appunto questo sapore da film western) credo che ci siano delle difficoltà a livello individuale. Lfassunzione di una reale attitudine responsabile nei confronti degli oggetti è legata allfintensità del sentimento di colpa soggiacente, per cui il confrontarsi con una situazione di colpa reale viene preconsciamente ritenuto un elemento catastrofico, quindi evitato in tutti i modi.

 

Malvagia: Cfè, insomma, una specie di rimozione di questa responsabilità?

 

Charmet: Cfè di sicuro, a livello individuale e a livello collettivo. E chiaro che per vincere la rimozione ci vuole uno stimolo. Stimoli come questi sono pericolosi come quelli di Chernobyl, però la loro elaborazione mi sembra che abbia dimostrato che esiste una reazione: la richiesta di chiudere le centrali nucleari.

 

Malvagia: Se una persona ne affronta unfaltra con un bastone ciò può trovare delle spiegazioni, ma se si accingesse ad attaccarla con decine di mitragliatrici e cannoni in modo da ucciderla migliaia di volte questo potrebbe entrare nella dimensione della follia. Non crede sia allfincirca questa la situazione fra le due superpotenze USA e URSS? E questa sorta di patologia planetaria a cosa potrebbe essere assimilata: ad un raptus o alla lucida follia predeterminata?

 

Charmet: Non lo so. Verrebbe da chiedersi se quello che la coscienza collettiva ha potuto sperimentare in termini di armi nucleari (Hiroshima, Nagasaki), non abbia in qualche modo contribuito a questo vissuto per certi versi perverso nei confronti dellfarma nucleare. Intanto, più è potente e quanta più ne abbiamo, tanto più prepararsi alla guerra significa prepararsi alla pace, nella misura in cui è stata contrabbandata lfidea che in fondo lfuso della bomba atomica aveva accelerato la pace. Non ucciso duecentomila persone, ma salvato la vita a milioni di persone. Quindi nasce una sorta di singolare collasso, avvalorando lfidea che avere molte bombe atomiche significhi in realtà salvare la patria. Avere ucciso centomila cittadini di Hiroshima, in fondo, è stato un buon sacrificio perché ha permesso a milioni di soldati di salvare la pelle. La lettura di questi eventi, così come sono stati tramandati nellfOccidente, nella cultura di negazione maniacale della colpa, fino a qualche tempo fa mi sembra che abbia finito per prevalere costringendo la gente a non porsi in modo troppo forte il problema, ma accettando una prima spiegazione manifesta: che lfequilibrio del terrore consentiva lo sviluppo del commercio e delle arti. E siccome il dato sperimentale è proprio che per quarantfanni, a forza di preparare bombe atomiche, ci siamo goduti una pace relativa quantomeno in Europa e zone limitrofe, non mi sembra del tutto semplice disimpastare i due elementi e vederli secondo la filosofia che ispira la domanda. In realtà, nella percezione delle masse, mi sembra che prevalga lfaltro dato: che sarebbe folle disarmarsi rispetto alla eventualità che lfaltro, segretamente, continui ad armarsi e poi essere le vittime dellfaggressività altrui.

 

Malvagia: Ma questa percezione è un dato arcaico, nel senso che in effetti è vero che fino al secolo scorso le armi davano più sicurezza contro la possibilità di un attacco. Adesso è matematicamente dimostrato che più armi significa maggior pericolo, in quanto si innescano maggiori possibilità di guerra per errore; e non sono fantasie, visto che le due superpotenze, USA e URSS, arrivano a fare delle commissioni miste per studiare come ridurre i rischi di guerra per errore. Quindi i rischi ci sono, e lfequazione più armi uguale più sicurezza è un dato oggigiorno arcaico e più armi significa più insicurezza. Non è ancora percepito, a livello corrente.

 

Charmet: Anche qui mi sembra che quello che favorisce la crescita culturale e lfingresso del simbolico – del bambino che sta per diventare adulto – è comunque sempre lfesperienza. Qui purtroppo dobbiamo lavorare in assenza di esperienza diretta, anzi rielaborando e disdicendo gli aspetti percettivi della realtà. Siamo in pace, mai goduto di tanta pace in Europa come negli ultimi quarantfanni sotto lfombrello nucleare, come fare a dimostrare il contrario? Credo che sia unfequazione logica quella che dice: «lfequilibrio del terrore, il terrore delle armi nucleari è sicuramente ciò che ha impedito di fare la guerra».

Generalmente, a livello di sviluppo individuale, uno la smette di usare un determinato meccanismo difensivo quando verifica che è anacronistico. I pazzi, i cosiddetti pazzi, sono coloro che invece procedono indisturbati, utilizzando meccanismi difensivi privi di adattamento reale che appartengono a una fase precedente, che precedentemente davano loro delle soddisfazioni e che invece nella fase successiva della loro vita sono assolutamente controproducenti. Non obbediscono allfadattamento. Indizi, peraltro, che ci sia questo processo di crescita e di presa di coscienza mi sembra che ci siano, le posizioni assunte a Reykjavik e nelle trattative successive significano qualche cosa, in fondo.

 

(segue)

 

 

 

 

Riferimenti e fonte della Pubblicazione originaria (PARTE PRIMA): «Psicoanalisi e morte nucleare», Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet, a cura di VITTORIO AMODEO e MARINA PALMIERI – In: eMALVAGIAf Trimestrale della cultura sommersa, Numero 26, Anno VII, Novembre 1987, pp.3-6.

 

 

 

 

 

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Psicoanalisi e morte nucleare

Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet

 

(nota in calce: Prof. G. Pietropolli Charmet, psicoanalista, docente di psicologia dinamica presso l'Università Statale di Milano)

 

a cura di VITTORIO AMODEO

e MARINA PALMIERI

 

(seguito dal numero 26)

 

 

PARTE SECONDA su MALVAGIA N.27-28  ¥

 

 

 

 

Malvagia: Lei pensa che la psicoanalisi possa affrontare la psicologia dei leaders: attraverso i loro discorsi, scritti, capire quanto cfè di inconscio o di patologico nei loro atteggiamenti?

 

Charmet: Lo studio della personalità di Hitler ha impegnato parecchi studiosi. Il contributo di Fornari1 a questo tipo di indagine cambia completamente lo scenario perché, in sé per sé, il ricostruire la biografia psicoanalitica e quindi il significato nevrotico, psicotico, di Hitler nei suoi atteggiamenti, e quindi la distruttività masochista della condotta che porta a morte tutta la nazione, non è che spieghi un gran che. Rimane sempre da spiegare perché la gente prenda un pazzo, lo mandi al potere e poi lo segua fino allfolocausto. Il contributo di Fornari è illuminante sotto questo punto di vista perché tende a leggere le stesse vicende in termini di valori, diciamo, universali. Per esempio Hitler, Mussolini, Stalin: lfopinione di Fornari è che alla eccedenza di valori paterni, caricaturali, monchi e ideologizzanti rappresentati da Hitler faccia seguito una sorta di eclissi dei valori del padre nella nostra società contemporanea, nella misura in cui finisce per prevalere una sorta di fobia nei confronti dellfautorità paterna.

La validità del suo contributo di studioso è nellfimmaginare che appartenga allfanima della specie la possibilità di individuare, in certi momenti storici, a seconda anche delle fasi di sviluppo socio-economico, lfopportunità di mandare al potere lfuno o lfaltro, o lfaltro ancora, dei personaggi della famiglia umana.

Per esempio è possibile la spiegazione del fenomeno per cui, dopo ogni rivoluzione, si assiste al ritorno del potere abbattuto precedentemente, in forme a volta ancora più sadiche (rivoluzione in Russia, in Cina ecc.). Consisterebbe nella necessità da parte della famiglia umana di riparare, dopo la coalizione dei fratelli contro il padre o contro la madre (madre Chiesa, o lfimperatore ecc.), di riparare il lutto perpetrato in nome degli ideali di fraternità, restaurando in qualche modo lfautorità paterna; però con unfenfasi particolare che consente il ritorno sempre di Napoleoni, di Mao o degli altri. Ora, è questo movimento collettivo che Fornari propone di tenere presente, individuando sempre come fallimentare e improduttiva quella soluzione che assolutizza il valore di un codice affettivo, quindi un personaggio della famiglia umana rispetto agli altri. Per cui, se cfè troppo padre le cose di sicuro non vanno bene (a meno che non ci siano delle situazioni particolari, guerresche ecc., ove bisogna restaurare una leadership). La sua proposta della buona famiglia in cui cfè padre, madre, figli e fratelli che in qualche modo sono rappresentati in questa sorta di democratizzazione affettiva della specie, è sicuramente la proposta vincente. Il problema è: come rendere in qualche modo consapevoli le persone della necessità assoluta di instaurare una buona famiglia anche nello Stato?

Voglio dire che, più che la patologia individuale, che non spiega perché la gente deleghi ad Hitler il comando, ha pesato la necessità di uscire dalla rivalità dei fratelli della repubblica di Weimar che comportava in qualche modo la messa in scatola del processo decisionale: restaurandolo in nome del padre, ma in modo caricaturale ed eccessivo pur avendo, sulle prime, il favore delle masse che lo vede finalmente arrivare rispetto alle beghe tra fratelli.

 

Malvagia: Dallfambiente della psicoanalisi viene espressa preoccupazione per le tensioni, i rischi mondiali, i rischi di catastrofe, oppure sono cose di cui la psicoanalisi non si occupa, almeno a livello ufficiale?

 

Charmet: Bisogna distinguere, perché cfè il filone originario della ricerca psicoanalitica che disegna il soggetto umano come abitato dallfistinto di morte e quindi come una creatura che è troppo pericolosa se la si lascia fare, perché lfistinto di morte tende a esprimersi in forme auto-etero aggressive. Il disagio della civiltà disegnato da Freud indica una necessità assoluta, perentoria, da parte della famiglia e dei sistemi educativi di contribuire a fare intendere al bambino piccolo, perverso e polimorfo, impotente e tendenzialmente distruttivo, la necessità di mettere sotto controllo sia gli impulsi erotici che gli impulsi aggressivi, istituendo da un lato il tabù dellfincesto, e dallfaltro il dover mettere da parte la natural tendenza aggressiva in vista di vantaggi che si hanno con lo stabilire un patto sociale. Disegna una teoria dellfinconscio che pone il soggetto come sostanzialmente distruttivo, tanto da fornire una spiegazione del problema della morte sulla base del desiderio, cioè su base pulsionale – in sostanza: così come lfuomo desidera accoppiarsi, desidera anche morire, se cfè lfistinto di vita è ipotizzabile anche lfistinto di morte. Abbiamo una Società di psicoanalisi che ritiene sostanzialmente inevitabile il fenomeno della guerra, perché apparterrebbe alla natura umana.

Fortunatamente, nellfambito delle ricerche psicoanalitiche sono emersi anche altri modi di leggere, che hanno abbandonato la teoria delle pulsioni e che, per esempio con Fornari, istituiscono il soggetto come animale simbolico e non come piccolo perverso polimorfo ma come una persona, un essere vivente che ha in sé, come unica fondamentale pulsione, quella di simbolizzare gli stati del mondo e la famiglia umana, e quindi più proteso a significare piuttosto che a distruggere o ad accoppiarsi incestuosamente con i propri genitori. È un altro disegno. È più a questo tipo di impostazione teorica che si può far riferimento per chiedere un aiuto piuttosto che non a una psicoanalisi che, in fondo, dice: gè lfanimo umano, cfè un impulso di morte, cfè una tendenza distruttiva che deve essere esportata fuori dalla famiglia, sul vicino di casa e quindi, in definitiva, nello Stato limitrofo, altrimenti lfaggressività rifluisce sul soggetto o sulla famiglia; quindi bisogna istituire lfaltra famiglia, quella dellfEst o quella dellfOvest, comunque una famiglia cattiva, il regno del Maleh. Una teoria psicoanalitica di questo genere legittima la situazione esistente, non legittima lfolocausto nucleare anche se lfultimo Musatti sostiene che ci si arriverà, perché il destino umano è questo: è lfistinto di morte, che è ancora più difficile da esorcizzare dellfistinto di vita.

 

Malvagia: Oggi la tendenza distruttiva diventa auto-distruttiva perché la distruzione del nemico comporta anche la distruzione propria. Una situazione nuova per lfumanità, no?

 

Charmet: Dallfinterno del movimento psicoanalitico è nata la proposta per lfUniversità della pace, un centro studi e ricerca a livello internazionale, centrato sugli studi del conflitto umano.

La psicoanalisi, in fondo, è una scienza abbastanza centrata sullo studio del confltto: quindi mi sembra con le carte in regola per dare un contributo importante allo studio del confltto. In piccolo, il trattamento psicoanalitico sottointende proprio questo: riferirsi a un modello teorico che indica la possibilità di elaborare il conflitto in termini pacifici. In fondo, una buona conclusione di un trattamento psicoanalitico consiste nellfevitare che una persona sia troppo divisa, sia troppo distruttiva, in modo da fare crescere le cose intorno a sé in modo abbastanza armonioso. Lfuomo psicoanalitico è lfuomo che ha risolto il conflitto.

 

Malvagia: Cosa pensa del fatto di indicare lfaltro come il Male, cioè di vedere lfaltro come depositario di mali, mentre naturalmente noi stessi siamo i buoni, per esclusione?

 

Charmet: Visto nei termini della teoria psicoanalitica classica il movimento paranoicale, con lfesportazione di tutte le nostre cattiverie, degli elementi distruttivi e aggressivi sugli altri, è nella nostra vita quotidiana. Il problema è se questo meccanismo è evitabile oppure no. Secondo Fornari la necessità di esportare lfaggressività su un altro sarebbe addirittura primaria nel senso che è superabile soltanto bonificando lfaccoppiamento primario fra la madre e il figlio, dove cfè molta aggressività perché il parto è un momento critico, e la madre può vivere il bambino come qualcuno che lacera, la uccide, la fa morire, la fa soffrire, e il bambino è verosimile che si senta travagliato. Nasce unfaggressività allfinterno della famiglia, e il padre la può deflettere allfesterno costituendosi come padre-guerriero che difende lfhabitat naturale, e comincia a dire che gi vicini sono schifosi, che lo Stato, le tasse, i capiufficio sono nemici.h

Però ha anche la possibilità di ritornare sulla scena della relazione facendo positivamente il padre col bambino e il marito con la moglie, senza che lfaggressività di cui è stato investito finisca tutta nel sociale, come premessa logica ai fenomeni di guerra. Cfè quindi la possibilità di unfelaborazione anche lì dove cfè la paranoia e la malificazione dellfaltro. È sempre un meccanismo naturale che avvia verso forme di risoluzione pacifica e di elaborazione del conflitto. Quindi non è detto che, da un punto di vista teorico, faccia parte dei meccanismi naturali di funzionamento della mente individuale e della mente del collettivo quello di paranoicizzare lfaltro per salvaguardare la propria bontà e il proprio spazio di accoppiamento.

 

Malvagia: Esiste, dunque, questa non estraneità della psicoanalisi rispetto agli argomenti della pace e della guerra.

 

Charmet: In quanto scienza del conflitto, sicuramente la tocca molto da vicino. Dipende dalla ideologia da cui è abitata la psicoanalisi. La ideologia tradizionale è sicuramente parecchio pessimistica, perché lfaccumulazione dellfistinto di morte sottintende la naturalità dellfevento guerra. E quindi dice: gQuesti che fanno tutte queste bombe sono matti, o rappresentano unfespressione naturale, aggiornata, tecnologica della cosa?h. Ma ogni scienza ha sicuramente un tot di ideologia al proprio interno. Mi sembra che abbia più prospettive uno sviluppo della teoria psicoanalitica che esce da questa antinomia fra gli istinti, e che vede in sostanza la vita sociale come lfespressione di un risicato equilibrio tra forze pulsionali e principio di realtà. Se lfuomo è una specie di alieno che bisogna tenere a bada organizzando una famiglia repressiva, una pedagogia repressiva, uno Stato repressivo per tenere a bada gli istinti feroci dellfanimale uomo, allora la guerra è un fenomeno inevitabile: meglio farla allfesterno con gli altri che non averla in famiglia. Se invece si esce da questa antinomia e si entra nel regno del simbolico dove si immagina che la mente sia abitata da una naturale tendenza a simbolizzare il reale e a cercare forme di aggregazione in vista della sopravvivenza, allora si vede la specie umana come abitata da un patrimonio originario, proprio, da una prescrizione filogenetica che prescrive la strada dellfadattamento e dellfincontro pacifico. Si immagina il bambino come un animaletto, parecchio indifeso ma che è abitato da una naturale tendenza a simbolizzare le figure fondamentali, quindi mettersi alla ricerca della mamma, del papà e del fratello. Non per distruggerli, ma per incontrarsi e sopravvivere: perché la sopravvivenza è legata al loro esserci e allfaccordo pacifico nella famiglia umana.

 

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(1) Franco Fornari, 1921-1985, psicoanalista, autore di numerosi studi e pubblicazioni tra cui gLa malattia dellfEuropah.

 

 

 

 

 

Riferimenti e fonte della Pubblicazione originaria (PARTE SECONDA): «Psicoanalisi e morte nucleare», Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet, a cura di VITTORIO AMODEO e MARINA PALMIERI – In: eMALVAGIAf Trimestrale della cultura sommersa, Numero 27-28, Anno VIII-Marzo 1988, pp.6-8.

 

 

 

 

 

¡  Rif.:  «Psicoanalisi e morte nucleare», Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet, a cura di VITTORIO AMODEO e MARINA PALMIERI  >>>  PARTE PRIMA  £  ===  PARTE SECONDA  £

-  Info su Pubblicazione originaria  >>>  PARTE PRIMA su MALVAGIA n. 26  +  PARTE SECONDA su MALVAGIA N. 27-28

 

 

 

 

 

 

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